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(e non mangiarne non è una colpa)
"Quando mangio qualcosa di sbagliato, quando sgarro, mi sento in colpa".
No, non è colpa tua se ti senti in colpa.
Il senso di colpa per ciò che si mangia è una delle emozioni (e come tale spontanea e rispettabile) più trasversali ai disturbi alimentari. E non solo. Relativo a qualsiasi cibo la cui quantità ecceda il "prestabilito", oppure conseguente ad un cibo diverso, fuori dalle "regole" e dagli schemi, considerato "non sano", appunto "sbagliato". Lo Sgarro.
Il senso di colpa è uno degli ostacoli più difficili da superare perché molto spesso è radicato e sostenuto dall'ambiente sociale in cui si vive.
Un ambiente di pubblicità di prodotti "fit" e "healthy" e "più sani" perché "senza qualcosa" (senza grassi, senza zuccheri, senza lattosio, senza additivi, conservanti, coloranti...), consumati da persone che sembrano sempre perfette, nel posto giusto al momento giusto.
Un ambiente di persone più o meno professionali che vogliono convincerci che è meglio ingannarsi mangiando un tiramisù di fette biscottate integrali e yogurt greco, piuttosto che un dolce vero.
Un ambiente di persone reali che vogliono "aiutare" attraverso i loro consigli sul cibo e sul corpo, perché potresti essere meglio, valorizzarti di più, e lasciaperderequelleschifezze.
Non è colpa tua se ti senti in colpa.
E non è meritevole mangiare insalata, né immeritevole mangiare patatine.
O almeno non dovrebbe. Entrambi i cibi possono rispondere ad un'esigenza del tutto personale.
Al contrario l'evitamento cronico e volontario di alcuni o molti alimenti può scatenare comportamenti alimentari faticosi se non addirittura patologici.
Il cibo è cibo.
O almeno dovrebbe.
1- Tutto il giorno
2- in continuazione
3- quasi sempre
4 -Intendi quando NON penso al cibo?
Questa è una delle domande chiave per capire se la relazione col cibo è compromessa.
Molto spesso chi ha un vissuto di restrizione e diete ripetute, o è all'interno di un circolo in cui per gran parte della giornata tende a mangiare pochissimo per auto-imposizione, si ritrova a pensare al cibo in tutti i momenti liberi da altri pensieri.
In condizioni fisiologiche dovremmo aspettarci che venga in mente di mangiare dopo qualche ora dal pasto precedente, quando effettivamente il nosto corpo inizia ad avere bisogno di nuova energia. Ovviamente è assolutamente normale che passando davanti ad una pasticceria il profumo induca la voglia di mangiare un dolce, ma questo è un altro discorso!
Invece, se al termine di un pasto ci si ritrova ad aspettare quello successivo, o si pensa spesso a quando finalmente arriverà il weekend in cui potersi "concedere" quello che veramente piace (lo sgarro!), verosimilmente non ci si sta nutrendo in maniera adeguata.
Privarsi di energia e di cibi che danno soddisfazione (fisica e psichica) porta ad una condizione che potremmo chiamare "effetto carestia" e che porta a cercare cibo finchè non lo si trova. E continuare a privarsene predispone a ritrovarsi in momenti in cui mangiare non è mai abbastanza, riempire lo stomaco in modo eccessivo e sgradevole, sicuramente non più piacevole.
Questo modo di alimentarsi contribuisce ad "inceppare" il meccanismo di auto-regolazione della fame e della sazietà, ulteriormente sostenuto dal senso di colpa e dalla "necessità" di stare a dieta per raggiungere determinati obiettivi.
Cosa otteniamo in questo modo? Nient'altro che un circolo vizioso di frustrazione in cui il cibo è un chiodo fisso che "non ci possiamo permettere".
Mangiare è un atto naturale ed un bisogno primario come respirare, e in quanto tale va ascoltato ed accolto e non considerato come un peccato capitale.
Non mangiare o mangiare solo determinati cibi selezionati in quantità limitate è un comportamento sempre potenzialmente dannoso e che può mettere a rischio di malnutrizione. Un tipo di malnutrizione che “non si vede”.
La definizione "scientificamente" accettata dell'anoressia "atipica" è: "tutti i criteri per anoressia nervosa sono soddisfatti ma, nonostante una significativa perdita di peso, il peso è all’interno o al di sopra del range di normalità."
Tuttavia la parola "normalità" è fuorviante in quanto essendo di base una "generalizzazione" non dà nessuna informazione specifica.
Per quanto apparentemente infatti una forma corporea sia adeguata alla società, o magari anche “più adeguata” di prima, non dà informazioni rispetto al comportamento alimentare o allo stato nutrizionale.
Avere il terrore di aumentare di peso, non uscire a mangiare perchè non si sa cosa aspettarsi al ristorante, avere la necessità di cucinare sempre in prima persona i propri pasti, riempirsi di verdure e cibi a basso contenuto energetico, digiunare dopo aver fatto un pasto diverso dalla propria routine, contare le calorie assunte quotidianamente…sono tutti comportamenti che incidono sulla salute fisica e psicologica. E non riconoscere la patologia come anoressia nervosa reale perché “la perdita di peso non è sufficiente" rischia solamente di ritardare la diagnosi e di conseguenza la guarigione.
Insomma un comportamento del genere è quasi accettabile nella nostra società dieta-centrica, quindi non è così grave... e invece no! Tante volte mi sono sentita raccontare da persone con anoressia che all’inizio (quando ancora il peso era “normale”) non si sentivano abbastanza malate, con la conseguenza che la patologia non ha fatto che progredire e peggiorare. Diversi studi dicono che una anoressia senza un peso eccessivamente basso può avere gli stessi rischi fisici e disagi psichici di quella “tipica”, eppure molte diagnosi ci sfuggono perché perdere peso e controllare il cibo è giusto finché sei "nella norma". Se ti riconosci in queste dinamiche chiedi aiuto perché è possibile uscirne.
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